Verticale d’autore: Walter Massa a Genova
Buona lettura.
“Nella roulette, tra il rosso e il nero, io sono lo zero verde.” (Walter Massa)
È difficile raccontare un grande uomo del vino come Walter Massa senza cadere nella retorica, senza ricorrere ad aggettivi che non siano già stati usati o addirittura abusati. Si rischia di perdere quella forza, quella potenza, quella convinzione nelle proprie idee e nelle proprie azioni che il personaggio trasmette. Per farne capire il carisma basta un semplice fatto. Nonostante fosse già stato versato il primo vino e lo splendido giallo dorato annunciasse un olfatto pirotecnico e invogliasse il naso a tuffarsi nel calice, nessuno dei partecipanti alla degustazione staccava occhi, sensi e attenzione da Walter Massa, che continuava a parlare concentrato, assorto, quasi dimentico di tutto ciò che lo attorniava.
Il flusso di parole è tale da far impallidire Joyce e gli argomenti trattati sono tanti: un excursus della sua storia, che non tralascia di toccare le vicende famigliari (soprattutto dei suoi formidabili zii), la situazione del vino in Italia, le cattive politiche chi si continuano spesso a perseguire nel tentativo di promuovere l’immensa risorsa dell’agroalimentare (perché, come giustamente fa notare Massa, non c’è solo il vino a fare grande questo comparto italiano). Il tutto condito da citazioni (da Vasco Rossi a Erasmo da Rotterdam, passando per molti altri), accenni alla storia, alla filosofia, all’arte: ché Walter Massa si definisce sì coltivatore, ma anche artista.
Cuore e cervello sono due dei suoi capisaldi. Ed entrambi emergono durante il flusso inarrestabile del discorso. Quando Walter parla degli inizi e del voler valorizzare, in anni in cui il vino rosso spopolava, le varietà a bacca bianca così come iniziavano a fare i suoi omologhi friulani, veneti e marchigiani. Quando racconta della scommessa, da molti ritenuta folle, di puntare su un vitigno come il timorasso, con la famiglia che in parte appoggiava e in parte scoraggiava la sua scelta di intraprendere la coltivazione della terra e di un’uva così ostica. Quando ci parla di come stabilì il prezzo della sua prima annata – era il 1987 e sull’etichetta il timorasso era definito “raro vitigno” – facendo la media tra il Gavi più economico e quello più costoso (5 e 12mila Lire, per cui il vino venne a costare venduto 8.500 Lire). Quando racconta che dal 1993 decise di rinunciare all’anidride solforosa durante la fermentazione, scegliendo di addizionarla solo a vino “fatto”. Quando spiega la necessità di microfiltrare il vino per “farlo rimbombare di più in bocca”. Quando parla dell’amicizia-complicità con Andrea Mutti, altro grande interprete del timorasso. Quando si incazza con l’ottusità di certi politici. Quando si commuove parlando del padre. Quando elogia altri grandi vignaioli che hanno fatto la fortuna del vino bianco italiano (e in sala c’è Mario Pojer, che non si perde una parola e che sarà il più lucido nel commentare i vini). Si procede tra parentesi, incisi, digressioni e gli interventi e i siparietti del fido scudiere tuttofare Pigi. Senza però mai perdere di vista la cosa più importante e fondamentale: il vino. E il vino parla. Con otto annate – tutte in magnum tranne il 1993 – che raccontano la storia di un pezzo di Italia che è diventata grande con lavoro, passione, intuizione, talento e un pizzico di follia.
2007 – La gioventù.
È quando ti imbatti in un bianco di 6 anni ancora così scalpitante che ne capisci tutto il potenziale evolutivo. Lo sfavillante giallo dorato preannuncia tutta l’esuberanza minerale e fruttata, con precisi rimandi citrini e di frutta esotica che giocano con le note eteree. L’evoluzione è continua, la progressione incalzante: spezie, idrocarburi, erbe aromatiche (con una nota netta e precisissima di rosmarino). In bocca entra sferzante, quasi tagliente, per poi ammorbidirsi e regalare una polposità mai stucchevole o preponderante che conferisce al sorso una persistenza che sfiora il fondo scala. Vino giovane, giovanissimo. Pirotecnico ma mai sfacciato. Resistete alla curiosità di bervelo subito, dimenticatelo in cantina e aspettatelo almeno per altri 5 anni.
2005 – L’altezzosità.
Dimenticate l’esuberanza giovanile del 2007, anche se nel calice i lampi dorati poco si discostano da quelli del campione precedente. Qui siamo di fronte a un nobile un po’ altezzoso, che ha bisogno di tempo per potervi concedere confidenza. Appena versato è quasi inespressivo, e anche roteando il calice la situazione cambia di poco. Ma il degustatore è paziente e tignoso, e l’attesa viene premiata con un naso sottile dove il minerale la fa da padrone, contornato da una bellissima speziatura e da suadenti rimandi floreali. La progressione è lenta, ma precisa e inesorabile. Alla beva si dimostra sicuramente più estroverso: fresco, sapido, ricco, lunghissimo, preciso nei richiami minerali. Già equilibrato, ma con un potenziale evolutivo che sfiderà i decenni.
2003 – Il calore.
Sono passati 10 anni da quell’estate caldissima, e di parole ne sono state dette tante, forse troppe. Adesso è ora che parlino i vini di quei produttori che, forti del loro territorio e del loro talento, sono stati in grado di interpretare e domare un millesimo così estremo e difficile. Il dorato è paradossalmente meno intenso, ma sempre invitante e seducente. L’esordio olfattivo è improntato su note fruttate, con l’albicocca in primo piano; non manca un accenno etereo, che cede però quasi subito la scena a note minerali e soprattutto di erbe aromatiche, che ne evidenziano la stretta parentela con il 2007. Se la lunghezza non è da meno rispetto alle annate precedenti, il solito connubio freschezza-sapidità riesce a contenere l’esuberanza alcolica e glicerica.
2001 – Il diverso.
Già il colore l’aveva fatto intuire. Il giallo dorato non aveva la brillantezza dei tre vini precedenti, e il naso ha subito evidenziato un principio di ossidazione, così come era emerso anche dalla bottiglia degustata nella sessione mattutina. Sfortuna o colpa del fatto che il 2001 è stato l’unico millesimo in è stato deciso di non microfiltrare il vino? Già in precedenti degustazioni avevamo rilevato un profilo olfattivo differente dalle altre annate, e lungi da noi l’idea di alzare bandiera bianca e passare al calice successivo, cerchiamo conferme. Spezie, miele, biscotto, la “solita” mineralità. Un vino che pur avendo perso la brillantezza dei fratelli minori (e anche dei maggiori) mantiene il suo fascino e la sua piacevole bevibilità. Se ve ne rimane in cantina bevetelo, saprà comunque ancora emozionarvi.
1999 – Che peccato.
Gli incerti – ma anche il fascino – di queste degustazioni. Il luminosissimo e bellissimo giallo dorato regala grandi aspettative, ma appena il naso cala sul bicchiere non possiamo trattenere la delusione che ci provoca un lieve ma inesorabile sentore di tappo. È un vero peccato, perché dietro si intuiscono finezze minerali, agrumate e balsamiche accompagnate da albicocca, frutta esotica, erbe aromatiche, miele e spezie. Pur contaminato, il sorso rivela forza, nerbo e persistenza.
1997 – L’infinito.
Lo guardi e pensi a un errore. Il giallo è un verdolino appena virato sul dorato, sempre luminosissimo ma meno ricco dei precedenti. Che Walter Massa abbia voluto farci uno scherzo e ci abbia fatto servire il 2009 o il 2010? Niente affatto. È che questo 1997 è di una gioventù disarmante, che lascia presagire un futuro lunghissimo e mirabolante. Progressione lenta ma costante a ogni olfazione, naso giovanissimo: erbe aromatiche, pungenze speziate, frutta ancora croccante, agrumi, mineralità a gogò. Ti chiedi dove potrà ancora arrivare e come potrà evolvere, cos’altro potrà regalare nel tempo. In bocca è pieno, ricco, sorretto da due spalle possenti fatte di freschezza e sapidità. È buonissimo, ma lo diventerà ancora di più se si saprà aspettarlo, resistendo alla tentazione di non berlo tutto subito e avendo la pazienza e la cura di lasciarlo in cantina a sfidare il tempo.
1995 – L’esotismo.
Il giallo dorato ha appena un cedimento, confermato da un lieve accenno di ossidazione al naso. Ma dopo un paio di rotazioni del calice il tessuto olfattivo si dispiega in tutta la sua opulenza e sensualità. Le note eteree veicolano richiami di pasticceria, cenni salmastri, un tappeto minerale che richiama la fine trama di un antico Kashan, fiori e tantissima frutta esotica matura. Il sorso è più sapido che fresco, ricco e preciso nei richiami gusto-olfattivi. Non ha il medesimo potenziale evolutivo dei millesimi precedenti e soprattutto di quello degustato immediatamente prima (ben difficile altresì da eguagliare), ma regala i colpi di classe di un campione all’apice di una splendida e brillantissima carriera.
1993 – La sontuosità.
Ogni tecnicismo sarebbe riduttivo e banale: il giallo dorato è semplicemente bellissimo. Consultando le note prese durante la degustazione spiccano i tre grossi punti esclamativi che ho tracciato immediatamente dopo aver messo il naso nel bicchiere. L’impatto è quasi devastante, così ricco e sfaccettato da confondere i sensi. È forse il meno minerale del lotto, ma si fa (ampiamente) perdonare sfoderando un caleidoscopio di sensazioni: toni dolci e caramellosi, richiami cosmetici, erbe officinali, assenzio. Le pungenze speziate e i tanti richiami alla tanta frutta esotica trasportano la mente alle bancarelle di un assolato mercato africano. In bocca è altrettanto ricco, gustosissimo e materico, quasi masticabile. Acidità e sapidità sono quelle di un vino giovanissimo, che potrà reggere il tempo ancora per molto.